Queste riflessioni sono nate qualche mese fa, durante il viaggio di ritorno dal FlexoDay Sud di Atif, mentre stavo raccontando a colleghi-amici della mia “avventura” in Africa.
La mia Africa
Sono arrivato in Uganda nel marzo del 1987, quasi fresco di Maturità, coinvolto come volontario in un progetto della cooperazione tecnica italiana nei paesi in via di sviluppo. L’attività si svolgeva presso la School of Media Development and Graphic Arts di Kampala, dove ho prestato servizio fino all’estate dell’89, e quegli anni hanno inciso profondamente nella mia vita, sia dal punto di vista personale che professionale.
Quegli incredibili giocattoli
Una delle prime cose che mi colpì arrivato in quel Paese appena uscito da un periodo di grandi disordini interni, sono stati i giochi dei bambini. I maschietti non usavano un bastone come fucile per “giocare alla guerra”, ma un insieme di pezzi di legno e ferro con le esatte fattezze dei Kalashnikov che, ahiloro, probabilmente già conoscevano bene. Poi c’erano quelle automobili fatte con il filo di ferro, che venivano “guidate” con un bastone correndo a piedi nudi nella terra rossa: non erano semplici scatolette con quattro dischi a mo’ di ruote, ma “vere” Mercedes, Jeep, Land Rover, riprodotte nella loro forma esatta. E la stessa cosa si vedeva in altri giocattoli, tutti con le fattezze degli oggetti originali che probabilmente agli occhi di quei bambini rappresentavano la tecnologia, prosperità e modernità che a loro mancava.
Riproduzione e creazione
Che differenza con i miei ricordi di bambino, dove stare seduti in una scatola di cartone-automobile, o in piedi su una tavoletta di legno-jet, diventava guidare un bolide con cui fare a gara con gli amici in competizioni favolose! Era come se in quei bambini ugandesi la capacità di creare si limitasse alla ricerca dei pezzi per costruire un giocattolo di cui vedevano solamente l’involucro esteriore. Avevano la capacità straordinaria di riprodurre il “prodotto finale” con risorse a dir poco limitate e un’esattezza incredibile nei dettagli, ma mancava qualcosa… Come se non entrasse in gioco – in senso proprio e figurato – l’immaginazione che allo stesso tempo collega e distingue la fantasia dalla realtà, quella “finzione” che va oltre la cosa vera (la scatola di cartone) per sviluppare il nuovo, “giocando” sul processo (la corsa in territori avventurosi per vincere la gara con gli amici).
Volere è potere?
Perché tutto questo Amarcord? Perché ogni tanto (spesso) mi capita come di avere dei déjà-vu che mi ricordano i giochi di quei bambini. Questo mi accade quando sento stampatori che “vogliono” raggiungere un obiettivo – chessò: stampare in expanded gamut – o che “devono” migliorare la qualità di stampa, magari per mantenere o riconquistare un posizionamento commerciale. E questo accade quando, di frequente, l’obiettivo è più o meno chiaro ma manca chiarezza sulla gestione del processo.
Voglio dire che – a volte anche in aziende eccellenti, con grande capacità di visione e di sviluppo – non c’è consapevolezza di quanto conti davvero la competenza nei processi in cui si vogliono introdurre delle novità. Insomma, ho incontrato fior di imprenditori e manager che si pongono obiettivi sfidanti e al tempo stesso faticano ad accettare cambiamenti nelle abitudini di lavoro, nel setup del sistema di stampa, nel livello di formazione del team coinvolto nel processo di produzione. Responsabili di stabilimento/produzione/prodotto che non sanno “veramente” come si gestisce il colore, che non conoscono le basi su cui si fondano i processi grafici che danno origine ai nostri prodotti stampati.
Manca in molte, moltissime realtà, quella educazione tecnica di base che deve essere colmata e continuamente perfezionata se si vuole veramente cambiare, innovare, migliorare.
Potere è sapere
Come diceva uno che non mi ricordo chi fosse, “chi non sa è costretto a credere a tutto”. Aggiungo dal canto mio che “chi non sa come si fa, non sa neppure come cambiare”: non basta decidere cosa fare, è necessario sapere come farlo.
Questa mentalità ancora così diffusa nelle aziende ha molteplici radici: nella storia della manifattura italiana, nelle origini del boom economico del secondo dopoguerra, nell’idea a lungo dominante nella nostra cultura di impronta umanistica che “tecnico” è vile e, peggio ancora, è contrapposto ad “artistico”.
A questi limiti, superati dall’evoluzione della realtà ma permanenti per inerzia nella mentalità diffusa, si sommano quelli delle scuole tecniche e professionali, che cercano a fatica di colmare quelle lacune così condizionanti. La situazione è nota. Negli istituti non ci sono macchine da stampa. Parlo di macchine “vere”, quelle che i ragazzi vedranno per la prima volta – se sono fortunati – durante lo stage curricolare, oppure solo a fine studi, quando metteranno piede in un’azienda.
I programmi di studio vengono aggiornati con grande fatica, frenati dalle necessità di riqualificazione dello stesso corpo docente, che deve affrontare tali percorsi in autonomia, e/o dalla difficoltà di allacciare rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro.
Siamo consapevoli, vero, che stiamo parlando delle persone che condurranno l’industria nei prossimi anni?
Per non parlare della formazione continua in azienda, sempre rimandata per motivi economici e comunque affrontata come un costo piuttosto che un investimento che crea valore…
Conclusioni
Se siete stati attenti, alla conclusione arriverete da voi stessi. Nel nostro mondo delle “arti grafiche” per fare innovazione di prodotto, introdurre nuove tecnologie, immaginare nuovi obiettivi superando lo stato di fatto attuale, occorre conoscere davvero, nel dettaglio, i meccanismi attraverso cui si realizzano i processi di stampa. Occorre colmare con una spiegazione tecnica teorica e approfondita ciò che non si può vedere e da cui, non per magia, nascono la qualità dello stampato, la razionalità del processo, il valore aggiunto che crea eccellenza e marginalità. Perché Arte/Fantasia/Creatività poggiano su Esattezza/Natura/Legge.
Perché “Bisognati descrivere la teorica, e poi la pratica. Quelli che s’innamorano di pratica, sanza scienza, son come ‘l nocchiere, ch’entra in navilio sanza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Sempre la pratica dev’esser edificata sopra la bona teorica.”
[Dell’errore di quelli che usano la pratica senza la scienza – Leonardo Da Vinci]